MARTEDI’ 17 APRILE ORE 20:30 – INGRESSO LIBERO – USCITA A CAPELLO
produzionepovera presenta
MUCIARA, non è più un mare per tonni
secondo studio sulla continuità
di e con Gaspare Balsamo, collaborazione artistica Donatella Franciosi, assistente Maura Teofili, luci Giuseppe Pes
Lo studio prende spunto dalla cultura della pesca del tonno in Sicilia e in particolar modo a Trapani. Non vuole essere una riproduzione nostalgica di un microcosmo culturale come quello del rais e della sua ciurma, piuttosto un percorso personale, quello della memoria dell’autore, delle sue emozioni e sensazioni.
Un tuffo nel passato dell’autore, quando bambino percorreva la strada del mare sentendo l’odore aspro del tonno e cercava il punto, e in un presente dove la visita alla vecchia tonnara abbandonata e distrutta, metafora di una realtà piena di merce/munnizza contemporanea, racconta il tentativo di ricucire la nostra identità spezzata tra quello che siamo e quello che non riusciamo più ad essere.
In questo senso ‘Muciara’ è un studio sulla continuità.
“ho cercato il senso delle cose
in una vecchia tonnara abbandonata
perché io sono gli infiniti uomini
che mi hanno preceduto…”
Gaspare Balsamo
NOTE DI REGIA
“I contadini della terra e del mare”: Si può dare loro teatro?
Non si tratta, però, di rimpiangere il vecchio buon tempo, ma di essere sgomenti di fronte all’operazione che hanno subito, l’innesto, il trapianto fatto alle loro spalle per normalizzarli. Cosa s’intende per normalizzare? Significa portare ad un senso comune, ad un uguale, verso una maggioranza.
“La maggioranza sta!”
Sta al posto di una minoranza, di una forma minore.
Diventare maggiori. Questo è l’imperativo. Bisogna essere del proprio tempo, stare nel proprio tempo, arrivare ad essere un risultato, da una partenza ad un arrivo, senza continui attraversamenti da uno spazio ad un altro, da un tempo all’ altro.
Invece che minori, particolari, in movimento, in comunicazione tra tempi diversi.
Nella storia minore in forma minore.
Contro lo storicismo della maggioranza che parte e arriva.
Il nostro è un tempo senza tempo.
E’ il tema dell’origine. E’ il sentimento del retaggio. E’ il minore errante.
In forma minore, oppongo, anacronisticamente, il mio senso di appartenenza e di attaccamento alla terra, che è un errare inteso come conquista, ma conquista come spostamento-spaesamento continuo di se stesso, da un tempo all’altro. Ricerco così un origine-non origine come l’arte del cunto, del teatro delle marionette – come in Camurria- o della pratica della pesca del tonno come in questo nuovo studio, ex forme minori innestate in questo tempo maggiore solo se funzionali alla legge del profitto.
Visito gli stabilimenti distrutti e abbandonati
della vecchia tonnara di S. Giuliano a Trapani.
Qui tutto è cadente, rovina e abbandono.
Accanto a questo luogo ormai discarica di munnizza/merce contemporanea,
sorge un centro commerciale magazzino di merce/munnizza contemporanea.
Dentro questo luogo oggi si consuma prostituzione.
Vado via, ripercorro in macchina la strada via mare,
la stessa in cui un tempo giocavo a trovare il punto grazie all’odore del tonno
che oggi non si sente più…
Ma la narrazione lineare di Camurria – primo studio sulla continuità – in questo nuovo lavoro lascia il posto ad una drammaturgia interrotta, ad una erratio fuori dalla storia.
Procede per frammenti senza soluzione cronologica, come frammenti sparsi di un reperto-documento ritrovato sotto delle macerie. Né sono un esempio nel testo, le parti del vangelo secondo rais, frammenti di episodi di vita di tonnara, staccati l’uno dall’atro, come se fossero stati da me trovati sotto le macerie della chiesetta ormai distrutta e abbandonata della vecchia tonnara visitata.
Vangelo secondo rais che non a caso viene letto e detto, perché irrappresentabile.
Non è teatro della memoria, come la s’intende, ma del retaggio, dell’estinto che torna, che manifesta, svela, evoca un altro mondo im-possibile. E’ il poeta-attore e la sua verità.
Il tonno rosso (thunnus thynnus) è in estinzione. Il teatro che faccio io è in estinzione.
Questo è uno studio sulla continuità in forma minore.
Gaspare Balsamo
“Gaspare Balsamo fa innanzitutto tesoro della propria voce, e scorrendo solennemente il Vangelo secondo il Raìs Mimmo, incanala il racconto come fosse un classico cunto. Ma dalla tradizione siciliana si allarga presto a viaggio personale nella memoria questa Muciara, non è più un mare per tonni…Il mondo della mattanza e del suo frutto nella tonnara risuona epico e grandioso (e vi dominano i toni del cunto) ma la sua mistica è solo estetica, senza nostalgia né rimpianti. Tutta la cultura serve al narratore per tentare di capire il presente e le sue trasformazioni. Tanto più è grandiosa quella narrazione di tonni e tunnina, capaci di accendere di odori identificativi la litoranea percorsa da Balsamo bambino, tanto più insensato e inconoscibile è lo stesso sito oggi, trasformato da tonnara in centro commerciale, dal nome altisonante. Balsamo fa il suo percorso col corpo, la voce e il cuore, e alla fine nasce già la curiosità di conoscere la prossima tappa…”
Gianfranco Capitta – Il Manifesto
“Muciara”. Gaspare Balsamo, le tonnare, il teatro, e il delirio dello spettatore | di Isabella Moroni (mag. 2009)
Di tonni e di rais, di leggende e ricordi, di delirio ed evocazione, ma soprattutto di continuità è fatto il nuovo spettacolo di Gaspare Balsamo “Muciara. Non è più un mare per tonni” che debutta al Teatro Palladium il 23 maggio nell’ambito della terza edizione di Teatri di Vetro..
Frammenti di origine, di appartenenza, ma anche di erranza. Per opporsi, anche anacronisticamente, al tempo senza tempo, funzionale alla sola legge del profitto.
Dopo “Camurria” dove “l’origine” veniva ricercata nell’Opera dei Pupi, nell’arte del cunto e della marionetta, ecco la pratica della pesca del tonno, ancora più fantastica ed ancestrale che parlando ditonni e teatri in estinzione,conduce ad una nuova continuità.
Incontro Gaspare Balsamo durante le prove. Sul pavimento azzurro mare sono disposti oggetti marinari, reperti della pesca e della fede, quella semplice e reale madre di tutte le storie.
Cominciamo dai testi: vengono da una ricerca documentale, dalle storie ascoltate, da una necessità interiore…
Da tutto questo insieme: io attingo un minimo alla cultura delle tradizioni orali per cui c’è una ricerca storico-antropologica. Ad esempio in quest’ultimo lavoro le ricerche partono dal ventiduesimo canto dell’Odissea in cui Omero paragona il massacro dei Proci alla mattanza, dai Persiani di Eschilo che racconta la battaglia di Salamina come fosse la pesca dei tonni, ma anche da Aristotele e da Oppiano di Cilicia, biologo del tempo di Marco Aurelio che è il primo a riprodurre lo schema della tonnara in mare, “l’isola” che è ancora lo schema a reti fisse utilizzato dagli ultimi rais di Favignana.
Poi c’è la bibliografia più contemporanea, lo studio sulla pirateria saracena del Mediterraneo a cominciare dal racconto di Boccaccio che parla di una schiava trapanese che andava a cucinare il pesce per i pescatori fatti schiavi in Tunisia, o Michele Amari, Cervantes che racconta sei pirati saraceni fra il ’500 e il ’600 e, ancora,le testimonianze orali di persone che fino a qualche tempo fa facevano la pesca del tonno.
Le ultime tonnare funzionanti erano quelle di Bonagia -che non funziona più dal 2003 -e quella di Favignana che è stata ristrutturata in maniera folkloristica e turistica e dove tonnaroti falsi fingono di fare la mattanza “ad uso e costume dei forestieri”.
Infine c’è l’aspetto autobiografico. In questo spettacolo l’aspetto autobiografico è ancora più presente perché sono proprio io il protagonista di questa storia che inizia con questo bambino che, sulla strada dove sentiva l’odore del tonno mischiarsi a quello delle alghe morte, faceva un gioco ad occhi chiusi per scoprire il punto dove si trovava, e finisce sulla stessa strada dove adesso non si sente più l’odore del tonno.
Da dove nasce questa nuova tappa del tuo percorso: “Muciara. Non è più un mare per tonni” e come hai proceduto per assemblare origini, minorità, erranze, mondezze e macerie?
Nasce nel giorno in cui per caso sono andato a vedere questa tonnara, una struttura completamente abbandonata sul mare.
Non so perché ci sono andato, perché sono entrato in un posto in cui non c’è nulla, dove non è nemmeno riconoscibile il suo passato di tonnara e poi ho capito che sono andato lì “a riscoprire gli infiniti uomini che mi hanno preceduto“. Il fascino delle macerie è evocativo, non a caso racconto anche di un gioco che si andava a fare nella vecchia tonnara…
Muciara ha una drammaturgia che si mischia e si confonde; un labirinto che potrebbe avere tutto un significato o forse no, una costruzione con apporti diversi: l’aspetto autobiografico, quello storico, alcune parti più attuali o quella parte di testo che si chiama Vangelo secondo Rais che mi è venuta in mente quando sono andato a visitare la vecchia tonnara distrutta ed in quel viaggio era come se, in mezzo alle macerie avessi trovato dei reperti, dei fogli con dei piccoli episodi di vita di tonnara. Per questo mi è piaciuto chiamarlo vangelo.
Alla fine scrivo un testo e lo sconvolgo completamente durante le prove.
Tu parli di estinzione e di necessità della continuità, hai un riscontro reale che il senso dell’appartenenza per il quale lotti stia diventando necessario per molti, oppure resta il sogno solo di colui che percepisce il proprio sradicamento?
Continuità è un divenire e non è facile riuscirlo a trasmettere anche se ce ne sarebbe bisogno, perché è proprio il pensiero che io applico all’idea del teatro: opporsi, anacronisticamente, al concetto di spettacolarizzazione e a quello di creare prodotti.
Il senso della continuità in questo spettacolo non è un racconto nostalgico o un andare a indagare il passato; più che altro è un nostos, un ritorno, il dolore del ritorno che non è né sentimento né rievocazione storica ma un tornare dentro un retaggio che crea al contempo continuità e discontinuità, dove ci si perde fra il fuori e il dentro, tra il passato e il futuro.
D’altronde è meglio perdersi che far finta di vivere una contemporaneità.
Se dire “sono attuale e contemporaneo” significa essere dentro un linguaggio che è fatto di spettacolarità e immagine ed è meglio non esserlo; se è comunicazione o creazione di un prodotto io credo sia meglio non essere contemporaneo.
Io faccio lo spettacolo perché è una mia necessità che prescinde il fatto che io voglia comunicare qualcosa per forza, ma la necessità è anche quella di coloro che guardano lo spettacolo, quindi la condivisione non deve essere imposta, né fatta a priori.
Per questo preferisco essere un attore monologante perché non credo molto nel dialogo dove succede che i due attori fingono di far finta di comunicare fra loro per tentare di comunicare con lo spettatore utilizzando, così, una doppia mediazione.
L’attore che sta solo, invece vaneggia, è folle, parla tra se e se e probabilmente arriva di più.
Le tue tematiche sono piene di fascino e di appartenenza: prima il cunto, adesso le tonnare. Sono significati simbolici, ed anche se non volessimo ammetterlo loro resterebbero archetipi. Come ti trovi dentro questo materiale così denso di significato? Come fai a domarlo?
Io lavoro per tappe, per processi. Tutto inizia con una necessità che mi arriva non so da dove, poi applico la ricerca antropologica e storiografica, poi scrivo un testo e vado in prova dove lavoro cercando di non avere un metodo perché il metodo mi riporta ad una razionalità, ad una scientificità, mentre secondo me il teatro deve essere imprevedibile e irrazionale perché più utilizzi uno studio, una maniera e più, forse, ti precludi.
La cosa fondamentale è lavorare sul ritmo del corpo e della parola.
Per la parola il primo studio cui attingo è naturalmente quello del cunto che è un’arte che ho appreso e che fa parte del teatro siciliano per antonomasia: il raccontastorie.
In questo spettacolo utilizzo il cunto tre volte: il primo che si chiama cunto dell’accisa utilizza la tecnica antica perché racconto una cosa antica, ovvero la mattanza; il secondo è un un cunto che non è quasi un cunto perchè è fatto in maniera moderna e che utilizzo quando racconto il nuovo modo di pescare i tonni, il terzo cunto è quello poetico, il cunto dell’amor mortale nel quale racconto i tonni che prima di morire fanno l’amore per cui diventa un cunto poetico, onirico che è un po’ un perdersi e un vaneggiare.
Per l’utilizzo del corpo attingo invece ad alcune reminiscenze, a un mio modo di muovermi che cerco di strutturare, ma anche al secondo teatro siciliano per antonomasia che è l’Opera dei Pupi che qui non c’entrerebbe nulla ma io ho una marionetta che si impossessa di me e che lavoro in maniera e con tematiche diverse.
In realtà per domare il significato non è tanto importante quello che si dice, ma come si dicono le cose ed io sviluppo un linguaggio che si basa sul ritmo verbale e corporeo che si mischiano si fondono assieme.
Diversamente da molti altri narratori tu accentui la fisicità e il gesto, li rendi parola. Come e perchè usi il movimento?
In questo lavoro utilizzo il corpo molto di più rispetto a “Camurria” perché questa volta non ho la musica in scena ma ce l’ho dentro.
Non voglio più tutelarmi con la musica che conforta me, ma anche chi mi ascolta e mi vede e allora vengo impossessato da una musica mia interna che mi porta maggiormente ad utilizzare il corpo.
E poi voglio fare una anche una scommessa: è troppo facile emozionare e coinvolgere con la musica e quindi voglio provare ad emozionare senza.
Del resto il mio non è un teatro rappresentativo, nello spettacolo non ci sono le cialome, i canti dei tonnaroti ed io non faccio finta di pescare sia perché sarebbe troppo scontato e sia perché non voglio rappresentare ma evocare immagini atmosfere e sensazioni.
Credo che per la maggior parte delle volte in cui utilizzo il corpo i mie movimenti sono aggraziati, quasi estatici, non è mai un movimento sanguigno ancestrale, né un movimento forte che riproduce il lavoro del tonnaroto.
Anche perchè il tonnaroto non è il pescatore del vecchio e il mare non è una lotta personale e nostalgica: lui contro il pesce. Il tonnaroto è un pescatore che vive in comunità e condivide sempre tutto.
Certo, c’è sempre il rapporto con la natura e il mito, ci sono i riti propiziatori, le preghiere, la figura del rais che ha un rapporto privilegiato con la natura e, come Achille, prima di andare in battaglia prega e poi comincia la buona pesca; ci sono tutti i connotati mitici ed epici ma non si tratta mai di una figura nostalgica né di una visione non romantica della situazione.
Il tuo linguaggio, pur usando un dialetto che potremmo definire “stretto” sembra arrivare forte e dirompente a tutto il pubblico.
E’ sempre così oppure ci sono luoghi o pubblici più difficili da coinvolgere
Non mi è mai capitato di percepire dal pubblico una sensazione di incomprensibilità totale.
Ci sono momenti in cui il dialetto è abbastanza connotato e non arriva tutti il significato del racconto, ma poiché è un teatro evocativo anche se non arriva parte del significato, arrivano le sensazioni.
Il dialetto non è un limite, almeno in questo tipo di spettacolo; la mia non è narrazione pura e non tutto è associato all’utilizzo della parola. Ci sono momenti in cui utilizzo il diletto con un ritmo particolare che neanche un siciliano riesce a comprendere, ma lì interviene l’astrazione del suono che trasporta, la tecnica del cunto, del canto che viene dal diritambo di Dioniso e diventa sonoro puro che ti fa perdere il significato più in superficie.
E poi c’è quello che lo spettatore si crea non vedendo nulla ma immaginandosi il tutto.
Questo è ciò che chiamo “il disumano del teatro”.
E’ anche vero che il pubblico potrebbe non essere pronto ad accettare di questo “disumano”. Voler essere pronti, infatti, ci preclude la possibilità di lasciarsi andare e ci fa chiedere “oddio cosa ha detto? Questa cosa non l’ho capita.”
Ed invece, come mi perdo io, sarebbe interessante che si perdesse anche il pubblico abbandonando la razionalità..
Disumano divento io e disumano diventi tu nel delirio: questo dovrebbe essere lo scambio fra chi fa teatro e chi va a teatro. Perdersi entrambi.
Ma non sempre di fronte ad un attore folle c’è un pubblico disposto a cedere qualche minuto della propria vita al dionisiaco…
Infatti dovrebbe essere questa la differenza del teatro. Tu non vai a teatro perchè ti vuoi svagarti; l’unica parte razionale dello spettatore dovrebbe essere: “questa sera vado a teatro per concedermi un’ora culturale ma anche un’ora di esaltazione, voglio andare là per perdermi, non per distrarmi. Vado a delirare, vado a sentire un folle e quindi divento folle anche io.”
Dalla persona più colta a quella più ignorante dovrebbero andare a perdersi in un delirio che non deve consolare, ma perturbare. Per questo mi piace utilizzare l’attore monologante e questa tecnica che sento mia: il cunto, la marionetta, il corpo, il delirio di questo che parla con questo ritmo.
Potrebbe essere un modo per rifondare il teatro lavorare sulla non comunicazione, sull’irrazionalità, mentre gran parte dei teatri di ricerca sono razionali e questo preclude il delirio e la follia.
Io non comunico perché voglio che ci sia follia in quel momento.
E se non c’è mi dispiace.
I tuoi spettacoli sono compiuti o sono in continuo divenire?
Sono tutti in divenire. Forse “Camurria” ha una drammaturgia più completa, in Muciara non c’è una storia che ha un inizio e una fine, bensì ci sono storie che si intrecciano, che non si intrecciano, che si sfiorano e poi si allontanano, ma poi alla fine tutto torna.
E se non torna menomale.